28 febbraio 2007

Ricordo di nonno Paolo Macioti



Paolo Macioti, seduto sulla sinistra, con i figli Carlo, Giorgio, Guido, Mario e Maria Teresa, detta Mesa, circa 1910


A – ricordi minuti


Di aspetto serio, severo, non sorrideva mai: a ottant’anni aveva ormai consumato tutte le energie vitali, era divenuto disincantato, senza più interessi, speranze. Ma aveva conservato intatta la forza penetrante dello sguardo, l’acutezza dei giudizi, coniugata con un chè di distacco dalle cose, dagli eventi, come di chi la sa lunga, avendo già tutto visto e sentito.
Per noi ragazzini, nel periodo più cupo della guerra, il nonno imponeva profondo rispetto, ma anche un certo timore non disgiunto tuttavia da infantile curiosità per certe sue peculiari abitudini – manie, ci sembravano - non altrimenti riscontrate negli altri adulti con cui avevamo contatti; anche se tutti costoro, in blocco, apparivano per la verità un bel po’ strani, se non addirittura un tantino matti. Non potevamo digerire la fissazione che tutti avevano per orari, rituali, mode.
Ma nonno Paolo aveva certe sue peculiarità che non si esaurivano col portamento possente, un metro e ottanta per allora era poco comune, coi capelli bianchi portati a spazzola – o come allora si diceva, portati alla Umberto – con la macchietta che aveva nel bianco di un occhio, vicino l’iride chiara; portava sempre scarpe nere, alte, a stivaletto, vestiti scurissimi, cravatta nera sulla camicia invariabilmente bianca, orologio d’oro nel taschino del panciotto, accompagnato da una lunga catenella bene in vista; emanava immancabilmente odore di tabacco trinciato, il solito mezzo toscano dopo i pasti; con una mano si riassettava spesso la barba bianca, i baffi possenti. Faceva cose che ci sembravano stranissime: quando una volta i nostri genitori si assentarono da Roma, forse prima della guerra, venne a stare qualche giorno da noi: potemmo quindi osservare che, prima di coricarsi (presto, come prestissimo si alzava al mattino), passava in rivista tutta la casa prima a luci accese, poi al buio, per assicurarsi, affermava, che nessuna favilla fosse sfuggita al suo sigaro serale.
La cosa tuttavia più curiosa era che noi tre nipoti, secondo i nostri genitori, avremmo dovuto dirigerci a lui interpellandolo con la terza persona, cosa cui non ci abituammo mai, anche per l’esiguità dei nostri mezzi espressivi.
Ad un nonno così serio e imponente toccò una volta, in casa nostra, di sobbalzare sulla sedia, pur in legno massiccio, ben intagliata ed impagliata, che sembrò crollare allorché vi adagiò i suoi novanta chili: si erano invece solo infranti i quattro mezzi gusci di noce che quelle canaglie…..finimmo a letto, c’è da giurarci, senza cena e senza neppure aspettare l’ora classica delle galline: lasciammo mammà spaventatissima per il cuore delicato del suocero.
Ci raccontava la sera dopo cena storie fantastiche e paurose che ci disponevano spesso a notti insonni, come quella volta che ci disse di un processo intentato ad un prete che, avendo notato l’improvviso eccessivo consumo di una “lux perpetua” in chiesa, pensò bene una notte di nascondersi dietro l’altare: al sacrestano, che dopo il consueto prosciugamento dell’olio rivolse il suo reverente saluto “Buona notte Gesù Crì” rispose “Buona notte Giovannì” e quello cadde secco sul posto; e noi quasi, con lui.
Ricordo l’emozione di quando, non ancora decenne, fui accompagnato proprio da lui, da Nonno Paolo, alla mia “prima assoluta” al Teatro dell’Opera, una sera che era in programma l’Aida: alle tinte forti del soggetto, alla musica trionfalistica e un po’ chiassona della marcia, ai dromedari e cavalli (anche elefanti?), guerrieri che continuavano a sfilare sul palcoscenico, faceva da contraltare il timore reverenziale che quell’uomo serissimo, silente, incuteva, non disgiunto tuttavia dalla profonda riconoscenza per avermi dedicato una intera serata; mi aveva accompagnato ad un’opera vera, fino ad allora solo accennata in singoli brani cantati, o meglio sussurrati dall’altro nonno, tenore mancato.
Lo ricordo in casa di zio Giorgio, a piazza Mazzini, dove occupava una stanza-studio coi suoi mobili scuri e severi, nella mia memoria zeppi di libri; ma poi forse non erano neppure troppi, codici, cartelle piene di atti processuali, testi dottissimi ed illeggibili per i non addetti, roba d’altri tempi: alcune delle sue carte, quelle relative alle amare vicende processuali della separazione dei suoi genitori, le conservo ora io; vergate per lo più da lui stesso a mano con calligrafia stretta ed alta, in punta di penna,con note distaccate: “Vespaio venuto fuori per il preteso consolidamento della proprietà con l’usufrutto della successione di Mons. Macioti alla morte di mio padre erede usufruttuario di Monsignore e proprietario in parte per mia rinunzia”. Questo titolo occupa tutto il frontespizio. Col passare degli anni la sua grafia si fa ancora più secca, scheletrica direi, altissima, astratta.
Non voglio però occuparmi qui delle vicende che hanno amareggiato la sua vita, questo spazio è dedicato solo alle memorie di lui che ci sono rimaste tra i ricordi nebbiosi di quando eravamo bambini o adolescenti: i miei fratelli maggiori potranno aggiungere qualcosa, le cugine anche, sarebbe un bel modo per onorare un uomo che, vedovo a quarantotto anni, ha condotto i suoi cinque figli fuori dal pantano in cui si era miseramente perduto suo padre, ed ha attraversato con loro due guerre terribili.


B - Ricerche / Notizie


L’ambiente alla sua nascita
Va subito detto che Paolo nacque a Roma, in casa dei suoi genitori, Via di Campo Marzio 63 il 25 gennaio 1863. Era sovrano a Roma il Papa Pio IX, nel suo diciassettesimo anno di regno.
Fuori dagli stretti confini del Lazio era sovrano Vittorio Emanuele II, che aveva da poco portato la capitale a Firenze, in attesa di impadronirsi di Roma cui quel titolo di Capitale spettava.

Roma, attorno a quei frangenti; e Velletri
Roma era allora una capitale nominale, non giungeva a duecentomila anime; fra queste si contavano parecchi preti, frati, monache, tutti allontanatisi in fretta di fronte al dilagare dei piemontesi nel resto dello Stato della Chiesa, all’impudente tentativo di incameramento ivi di conventi, chiese e proprietà varie, in attesa di dichiarare l’abolizione dell’asse ecclesiastico.
Tuttavia c’era fiducia che le cose si aggiustassero, così come era ritornato normale il modo di governare dopo i bollori rivoluzionari della Repubblica Romana del 1848-9: l’amministrazione locale, è vero, non era più solo in mano al ceto nobile, si cominciavano a vedere classi emergenti,
ma sempre, beninteso, formate da persone interessate, quindi possidenti e benestanti.
A Velletri il nonno paterno di Paolo, Virginio Macioti, era stato nominato Gonfaloniere di quel Municipio già nel 1846, proseguendo l’antica consuetudine della famiglia di essere rappresentata nel governo cittadino. Aveva poi avuto la nomina ad Anziano Nobile, ed aveva infine ricoperto la carica di Membro della Consulta Araldica, con Pio IX.
Pio IX dopo le vicissitudini che lo avevano portato a rifugiarsi in Gaeta, aveva ripreso, dopo il 1850 ad ammodernare il suo Stato lanciando un illuminato piano di opere pubbliche, a partire dai moderni collegamenti su binario: è vero che sbuffanti motrici a vapore trascinavano i convogli della linea Napoli – Castellammare di Stabia già vent’anni prima, tuttavia le ferrovie pontifice furono seconde in Italia solo a quelle: la Roma Frascati nel 1856, con stazione a Porta Maggiore; la Roma Civitavecchia, del 1859, attestata alla stazione di Ripa Grande, oggi Porta Portese; e la Roma Ceprano, ai confini meridionali dello Stato, del 1862, con capolinea in un capannone a Termini. E’ del 1863 la Manifattura Tabacchi costruita fuori dell’abitato di Trastevere. Nel medesimo anno un concessionario privato inaugura un ponte metallico che attraversa il Tevere all’altezza di San Giovanni dei Fiorentini: i pedoni gli pagano un soldo quando passano presso il chiosco all’estremità verso via della Lungara, esonerati sono solo i militari in servizio, i membri di ordini questuanti scalzi, i ragazzini che la fanno franca con una corsa da primato. Resterà in servizio per settantotto anni, quando sarà inaugurato il contiguo Ponte Mazzini.
A quel tempo i ponti di Roma sono solo quattro, omettendo perché inservibile, quanto ancora resta dell’antico ponte Emilio, poi Sublicio, indi definitivamente Ponte Rotto. Essi sono, da valle verso monte: il Quattro Capi (o Fabricio) che insieme con il Cestio consentono l’attraversamento del fiume all’isoletta; il Sisto, il Sant’Angelo, al Castello, il Milvio assolutamente decentrato.
L’abitato è tutto contenuto entro le mura Aureliane, nelle quali tuttavia stà ben largo: enormi spazi vuoti sono coltivati ad orto fra il Campidoglio ed il capannone ferroviario di Termini, passando per Esquilino e Viminale; oltre il Colosseo e verso San Giovanni non ci sono che poche case; la suburra collega i Fori con Santa Maria Maggiore; il Trastevere non arriva alle pendici del Gianicolo; al di là dei Borghi, tutti stretti attorno al cupolone, si aprono i prati malsani di Castello; la Roma abitata si limita al tridente da Piazza del Popolo al Panteon, comprende tutta l’ansa del Tevere fino alle pendici del Campidoglio, il Quirinale, Trevi: Piazza Barberini confina con le grandi ville, segnatamente la villa Ludovisi che occupa tutto lo spazio fino alle mura. La città si percorre facilmente a piedi, anche se è comodo servirsi dei primi timidi carri collettivi trascinati da cavalli. L’igiene della città è tutt’altro discorso: pochissime le fognature (chiaviche); pochissime le case servite da acquedotto, strade non sempre pavimentate (selciate); servizi di quartiere, come mercati, scuole pubbliche, ospedali, solo in alcuni casi, ed estremamente approssimati. Aperto e funzionante il manicomio, posto sul luogo dell’attuale Piazza della Rovere, lungo l’asse della Via della Lungara: vicino quindi alla antichissima istituzione dell’Ospedale Santo Spirito.
Il gas ancora per alcun tempo solo per illuminare qualche angolo di strade. Un Regolamento della Roma del 1864 ordinava : “è proibito scozzonar cavalli ….e far vagare nelle piazze e nelle strade polli, animali immondi, vacche, giumenti…”. L’anno appresso prese fuoco una vaccheria in via della Vite e morirono dodici capi: che sarebbe successo in Via delle Vacche?!
In quei tempi tra Via di San Teodoro e la contigua Via dei Fienili, si contavano ben sedici depositi di foraggi e fieno: topi (e gatti) dovevano farla da padroni, forse ancor più di oggi.
A Velletri le cose non andavano certo meglio: le più ridotte dimensioni consentivano un’aria meno pesante, tuttavia le fogne mancavano del tutto, i liquami scolavano liberamente lungo i pendii. Di servizi pubblici neppure l’ombra, vi suppliva appena la carità pubblica (Casa delle Zitelle abbandonate, aperta da San Vincenzo Pallotti nel 1852 ed ampliata successivamente col concorso di privati cittadini).
Di quei tempi in altre parti del mondo si producevano significative opere dell’ingegno e del lavoro, quali:
- costruzione dell’Istmo di Suez, ad opera dei francesi, in dieci anni a partire dal 1859;
- leggi dell’ereditarietà di Mendel, 1865;
- Tristano e Isotta, dramma lirico di Wagner, 1865
- prima macchina fotografica di Daguerre, 1839;
- primo sottomarino, 1863;
- dinamite, definita da Nobel nel 1867

I genitori di Paolo
Il padre era Geraldo, nato in Velletri il 10 aprile 1841 da Virginio e da Cecilia Gigli: risulterà essere il primo maschio della sua generazione dopo la precoce scomparsa nel 1850 di un Giuseppe ventenne, unico figlio del precedente sfortunato matrimonio di Virginio con la povera Caterina Ulisse.
Geraldo era preceduto da due sorelle, Filomena, del 1837 e Clelia del 1839; e seguito da Laura, del 1843 e da Vincenzo, del 1848.
Tre giorni dopo la nascita il cocchetto di casa viene portato al fonte battesimale dove gli viene imposta una sfilza di nomi: Geraldo, Cataldo, Vincenzo, Luigi, Francesco, Angelo; appena inizia a parlare viene soprannominato Dodo, così come lui stesso pronunzia il suo nome.
La madre era Maria Teresa, detta Marietta, figlia unica di Agostino Del Re; di lei sappiamo ben poco, neppure il nome della madre: Agostino non ne fa mai menzione, neppure un accenno.
Non nel testamento, col quale anzi chiede di essere sepolto nel deposito già disposto da suo padre nella Chiesa Nuova, dove ancor oggi è facilmente individuabile nel pavimento, in vista del venerato altare di San Filippo Neri. E neppure nei patti matrimoniali relativi alla figlia; non nelle carte della sua famiglia nelle quali indica i suoi genitori, uno zio, un bel po’ di zie. Resta il fatto che la sfortunata Marietta resta una figura patetica, condannata dalla cattiva sorte a fare un matrimonio sbagliato: era di un anno buono più giovane di Geraldo, nata in Roma il 7 febbraio 1842.

Se a Velletri Geraldo cresce da scapestrato, frequenta pessime compagnie, anzi vuole solo quelle, Virginio si stringe nelle spalle, sempre pronto a giustificarlo, a perdonarlo; non così Cecilia, che da ultimo prende in mano una situazione compromessa e spedisce il figlio sciagurato a Roma, perché vi compia i suoi studi sotto il vigile controllo dello Zio Monsignore; questi era fratello (anzi fratellastro) di Virginio, abitava vicino la Chiesa Nuova, ricopriva una importante carica nella Magistratura pontificia. Solo che Mons. Luigi Macioti Toruzzi qualche problemino nella sua passata gioventù lo aveva suscitato anche lui, se due suoi zii, entrambi Vescovi, si confidavano fra loro: “Giggio, che ha fatto quel che ha fatto,….” Ma poi non vanno oltre, ci lasciano la curiosità. Resta comunque il fatto che i fratelli di Giggio si affrettano a chiedergli la resa dei conti ed il ritorno della cassa comune che incautamente, se ne deduce, gli avevano prima affidato.
Tra zio e nipote i rapporti sono ottimi, si direbbe che i due si capiscano; Cecilia, un 24 febbraio, non si precisa l’anno, scrive al figlio: “Al Nobile Geraldo Macioti, Palazzo Bennicelli, Roma” e la lettera arriva in Piazza dell’Orologio, se poi tutto sommato la leggo ora io; e inizia “Laurina ti disse bene assicurandoti che io avea dimenticato il dispiacere che improvviso tu mi procurasti….”
Per determinate persone l’amore materno, la gentilezza, la diplomazia, il perdono, non pagano, sono dovuti; Geraldo non solo non studia ma anche spende e spande un sacco di denaro: è probabilmente in quel periodo che ad ogni visita ai genitori a Velletri questi notano un discreto calo nell’argenteria di casa, dei valori, di qualcosa di facilmente commerciabile in Roma; Virginio è comprensivo, gli aumenta il sussidio, Cecilia è preoccupatissima.
Geraldo e Marietta si incontrano, si conoscono, si frequentano volentieri; quando Agostino e la famiglia di Geraldo vengono a conoscenza della loro relazione, esperite con discrezione le indagini del caso, avendo riconosciuto possibile e conveniente entrare in rapporti, i due padri, con l’assistenza dei parenti più rappresentativi, di testimoni e di un notaio sottoscrivono i patti matrimoniali; gran parte di questi sono solo parole di circostanza, come il gradimento dei due giovani, del parentado, la soddisfazione di Mons. Macioti Toruzzi; quando si viene alla sostanza, la dote, si entra in dettaglio: Maria Teresa avrà una dote di quindici mila scudi versati senza interessi secondo un ritmo determinato e con la garanzia concreta costituita da ipoteca appositamente accesa su due edifici di proprietà esclusiva di Agostino da cielo a terra, posti in zone appena al limite dell’abitato, uno in Piazza Barberini tra la futura via del Tritone e via degli Avignonesi, di cui sentiremo ancora a lungo parlare, l’altro lì presso, in via S. Nicola da Tolentino, di cui invece perderemo subito le tracce.
Il patrimonio di cui Geraldo viene messo in possesso ascende a ventimila scudi, gran parte dei quali costituiti dalla eredità dello zio Vescovo di Virginio, altro Geraldo, vincolata per il primogenito, patrimonio cui Virginio, in occasione delle nozze, rinuncia a favore del figlio.
Detto e fatto, i ragazzi si sposano il 12 agosto 1861, trentanove anni in due, nel tripudio dei parenti.
Gli sposi si installano subito nella casa di Agostino, da lui prontamente messa a disposizione, in via di Campo Marzio 63; nella Roma più abitata di quei tempi; Agostino si decentra un po’, va a vivere nella casa di Piazza Barberini.
I rapporti fra i due sembrano buoni, ma Marietta non è contenta.

Nascita di Paolo e sua adolescenza
Un anno e mezzo dopo nasce Paolo, come abbiamo già visto, in un terso e rigido 25 gennaio 1863; appena il giorno appresso viene battezzato nella chiesa di San Tommaso in Parione, dove officia Monsignore zio di Geraldo: i nomi imposti sono Paolo, Giuseppe, Filippo, Antonio.
La Cresima gli viene impartita anzitempo, con una speciale deroga, per una malattia dei denti: il 17 luglio 1864, quando si temette per la sua vita.
Segue un fratellino, Alessandro, nato il 20 febbraio 1865: sembra la felicità, ma Marietta ha qualcosa che non riesce a dire alle sue cognate, lei che non ha né fratelli né sorelle.
Altri due anni, nasce una sorellina: Cecilia Ersilia è la gioia di tutti, una novità in casa, forse un giorno sarà l’alleata di Marietta. E’ il 16 novembre 1867, Paolo ha ormai quattro anni e mezzo; è
lui il futuro uomo di casa, il primogenito cui spetterà continuare la famiglia, secondo i divisamenti dell’ormai lontano prozio Vescovo Geraldo. In quell’attesa Paolo frequenta la casa dei nonni a Velletri, dove Virginio non ha occhi che per lui – e il bambino lo ricambia con un innocente “nonno guerciotto” per via di quella caramella che porta su un solo occhio, munita di un lungo cordoncino, dovesse mai cadere. In quella casa trova l’affetto materno della zia Nena, la maggiore, quella che sarà sempre a disposizione di tutti; le altre invece si sposeranno, andranno a vivere a Roma, una dietro l’altra. Da poco è morta la nonna Cecilia, la sorellina di Paolo ne eredita il nome: quando lui chiede dov’è la nonna, in cielo, gli rispondono; lui alza gli occhi, ma non la vede. Il nonno vorrebbe Paolo sempre in casa con sé e con la figlia Nena, che lo accudisca; persino Marietta si trova d’accordo, la presenza di Geraldo in casa a Roma non è un buon esempio per i bambini, specie quelli più svelti, come Paolo. Ma come fare, come impedire che Geraldo continui a dilapidare il patrimonio di cui dispone e con quali compagnie, per giunta!
Improvvisa viene la tragedia, Cecilia a due anni vola in cielo a conoscere la nonna.
Geraldo sembra avvedersi della situazione, prende parte al dolore di tutti, ma poi non ce la fa più, ripiglia la sua vita dissoluta.
Col consiglio di Agostino, Marietta consulta un legale, questo a sua volta suggerisce di avviare la separazione legale, a quei tempi un affare difficilissimo: per arrivare poi alla interdizione di Geraldo allo scopo di proteggere quel che ancora resta del patrimonio. Per far questo occorre il pieno consenso della famiglia di lui, consenso che dovrà essere pronunciato dal consiglio di famiglia appositamente convocato.
Tutte queste cose si svolgono in anni di tempo, Paolo non le conosce; ma è un ragazzino accorto, capisce che c’è qualcosa che non va, soprattutto respira con sua madre un’aria soffusa di infelicità.
I problemi incalzano, Geraldo pare non conosca più freni, non sente ragioni, conduce una vita dissoluta.
Di fronte a tanto sconquasso passa quasi in secondo piano il cambio di regime; dopo il 20 settembre 1870 è cambiato tutto, non resta più nulla dell’ordinamento precedente: almeno in teoria; nei fatti tutto è provvisorio, ad una burocrazia se ne sovrappone un’altra. Gli avvocati impazziscono alle prese con i codici, poi notano che l’unica manifestazione certa del cambiamento è, almeno per il momento, che gli atti ufficiali vanno iniziati non più con “sotto il Pontificato di Sua Santità Papa Pio Nono Felicemente Regnante” ma piuttosto con “In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II° per Grazia di Dio e Volontà della Nazione Re d’Italia”.
Il Re, cacciato il Papa, si installa nella sua residenza al Quirinale; i nuovi Tribunali cambiano le insegne, ma restano al posto di prima; a Roma la Piazza d’Armi resta quella stessa, i militari sono sempre le medesime persone, sia pure con uniformi differenti; ricordando tanti avvicendamenti di regime del passato la sensazione è quella di rivivere una scena già nota: forse anche quella recitata nel teatro di pochi anni prima, quando nel ’48 e ’49 la Repubblica Romana aveva cacciato il governo pontificio; ma poi tutto era tornato come prima, il ritorno di Pio IX nel 1850 aveva segnato la chiusura di una parentesi; fosse questa una semplice rassegnazione oppure una speranza, era tuttavia una sensazione diffusa.

Paolo aveva appena compiuto otto anni quando la madre firmò la richiesta di separazione: era il 1° febbraio 1871; seguiranno anni di carte da bollo, liti, ricorsi; intanto il comportamento di Geraldo non conosce più regole, la convivenza non è più possibile. Geraldo vuole essere l’assegnatario di Paolo, Alessandro no, non sarebbe che di peso; infatti Paolo è titolato a disporre della metà della “Primogenitura”, beninteso al compimento della maggiore età: quale migliore occasione che quella di farsi affidare il minore, per gestire e poi mangiare quella fetta di patrimonio?
Su istanza del 18 novembre 1872 proposta da Vincenzo, Filomena, Clelia, Laura fratelli Macioti, il Tribunale civile di Velletri emette sentenza di inabilitazione di Geraldo ad amministrare i propri beni. Gli stessi attori, con l’aggiunta di Uberto Conte Giannuzzi, marito di Laura, ma nella veste di Amministratore di Virginio (per l’età avanzata e per la debolezza dimostrata nei rapporti col figlio Geraldo, era stato inabilitato anch’egli dal gestire il proprio patrimonio) chiedono l’allontanamento di Paolo dalla casa paterna e l’affidamento alla famiglia del nonno, dove troverebbe l’assistenza delle zie in attesa di sistemazione adeguata in un Istituto Collegiale: l’istanza è del 3 gennaio 1873, la sentenza, perfettamente consona, di cinque giorni dopo. Paolo ha ormai dieci anni; trova finalmente un po’ di serenità nella casa del nonno, anche se gli manca molto il fratellino Alessandro. Il collegio viene finalmente individuato in Mondragone, presso Frascati; è un Istituto tenuto da religiosi che gode ottima fama per qualità di insegnamento e per fermezza di regole. Paolo comincia a frequentarlo, si trova dapprima spaesato, ma ormai è grandicello, se ne fa una ragione, va avanti con profitto.
Marietta resta amareggiata, sente di perdere Paolo, così lontano, e con Geraldo che non finisce mai di tormentarla, di offenderla; la sua vita è un inferno; resiste tuttavia per via di quel bambino che le resta, che lei cerca di proteggere come può. Marietta riceve una lettera dal “Suo Aff.mo Dev.mo servo A. Caroselli” che reca la data del 4 agosto 1873. Il suddetto cerimonioso Signore raffigura un Geraldo ridotto ai minimi termini della sussistenza, della contrizione, della confusione, in balia di problemi enormi, uno dei quali costituito dall’imminente processo penale cui è costretto per il ferimento da lui inferto “alla sig.ra Marianna” (sarà questa una cameriera che proteggeva Marietta da quell’energumeno?); meno male, prosegue Caroselli, che Zeno è in carcere a Castel Sant’Angelo per diserzione (conosciamo così il nome e la sorte di uno degli sfruttatori di Geraldo). Conclude lo scrivente invitando Marietta a mostrare ancora la forza di credere alla sincerità dei propositi di Geraldo, “che se poi anche questa volta ci deluderà nessuno potrà dire che non si sia fatto nulla per venirgli incontro”. Lo scrivente svela infine il suo giudizio su Geraldo quando invoca il perdono di Marietta per i torti da lui inflittile, perdono, aggiunge, che non si nega a nessuno “massime con un parente, e con un uomo che ha la sventura d’essere così debole di mente”. Cosa ne sia seguito non sappiamo, ma certo l’atteggiamento di Geraldo non ha cambiato di una virgola né in quella occasione né nel tempo a seguire.
Tutto compreso per il bene di Alessandro occorre allontanarlo dalla casa dove il padre fa irruzione quando vuole; la soluzione migliore sembra essere quella di mandarlo allo stesso collegio di Paolo: i due fratelli in questo modo sono felici di ritrovarsi, Marietta è sempre più sola e più esposta alle angherie di Geraldo, arroccata nella casa di via di Campo Marzio.
Nel collegio intanto l’inverno è duro, Paolo ci si è ormai abituato. Sembra di vederli questi ragazzi, tutti uguali nell’uniforme grigia, il gran fiocco bianco al colletto; sono intenti a tradurre il latino, a scriverne le regole a lume di candela, la penna dal nuovo pennino in acciaio forbita sul margine del calamaio, le dita gonfie di geloni. Alessandro, nel suo primo anno di corso, gracilino com’è, si prende una polmonite. Quando muore non ha dieci anni, si porta via con sé in cielo l’ultimo sogno, l’ultima gioia della madre sua. Questo trapasso potrebbe essere avvenuto nell’inverno 74-75, poco dopo la fine, quindi, del nonno Virginio (17 ottobre 1874).
Paolo matura in fretta, accumula esperienze, trae giudizi: condannerà per la vita intera quel padre sciagurato cui unicamente sa di dover addebitare la rovina della sua famiglia, la perdita della piccola sorellina, quella atroce del fratello, la distruzione morale e psicologica della madre. Ad essa decide di dedicare interamente, di lì in avanti, le sue energie.

La Roma conosciuta allora da Paolo
Durante il prolungato immobilismo che seguì in Roma dopo il breve fervore delle opere ferroviarie
e che durò fino alla fine dello Stato Pontificio, si mise in tutta evidenza un brillante Prelato, Frédéric Xavier de Mérode, rampollo di una grossa dinastia belga (Bruxelles 1820 – Vaticano 1874) che univa al dinamismo oltremontano una abbondante dote di pragmatismo e spregiudicatezza.
Mons. de Mérode non condivideva la mancanza di ogni iniziativa da parte del Pontefice, l’atteggiamento di rassegnazione nei riguardi dei francesi che di fatto controllavano Roma con il pretesto di difenderla dalle mire espansionistiche esterne, ne osservava la inadeguata politica improntata sullo sdegno e sulla condanna morale di chiunque si opponesse a secoli di consolidato dominio temporale della Chiesa: l’Arcivescovo de Mérode, già potente Ministro delle armi, ora Elemosiniere di SS. semplicemente piegava agli interessi della Chiesa e suoi personali le circostanze, così come si andavano delineando. Fin dal 1859 aveva intrapreso una campagna di acquisti in Roma, entro le mura Aureliane, dapprima per l’amministrazione pontificia, poi, per la freddezza di questa, direttamente in proprio: inizia con ville, orti, giardini di conventi, lotti incolti: si assicura quasi tutta la zona tra la Stazione Termini ed il Quirinale: vinca chi vinca, i terreni saranno un giorno preziosi, la città dovrà pur crescere. Negli anni 64 – 65 si assicura tutti i terreni, del Viminale, allora ancora coltivati ad orto. Da Pio IX si fa approvare il progetto di una Via rettilinea che da Magnanapoli, ai piedi del Campidoglio, si inerpichi su fino a Termini; forte ora della convenzione ottenuta, con i suoli serviti dalla nuova arteria che nel frattempo viene tracciata a spese dell’amministrazione pontificia, non resta che attendere lo svolgersi degli eventi per realizzare la propria fortuna. L’occasione si presenta nel 1871, col nuovo assetto politico, quando l’abile Monsignore riesce a farsi firmare una convenzione col Comune di Roma, che, pur assegnando all’amministrazione pubblica tutte le spese di inurbanamento, riconosce a lui la piena disponibilità dei terreni alla costruzione: l’incredibile atto era stato presentato alla discussione dal Conte Pianciani, noto anticlericale, futuro Sindaco di Roma per due mandati, il primo dei quali dalla fine del 72 a metà del 74. Nulla si conosce delle armi di seduzione usate da Monsignore.
Altro grande polo di interesse espansionistico in Roma dopo il 70 è tutta la piana di Prati: lì si concentrano gli interessi dei noti mercanti romani di campagna, Franceschetti, Piacentini, Senni, Serafini, Silvestrelli, Tittoni riconvertiti a più lucrosi affari, in concorrenza con l’aristocrazia romana; de Mérode non si fa sfuggire l’occasione, acquista in Prati una villa, la rivende nel giro di un paio di anni.
Per noi figli di Bianca Colonna una gustosa notazione: nel breve volgere di un anno gli acquirenti di terreni in Prati sono ormai mutati; ai privati si avvicendano gruppi finanziari, anche esteri.
La presentazione al Comune di un progetto relativo all’urbanizzazione del quartiere viene accompagnata da una lettera illustrativa della proprietà, sottoscritta il 26 giugno 1872: tra i firmatari troviamo il “Comm. C.M. Morpurgo di Nilma, a nome della Morpurgo e Parente di Trieste”: questa, la zia Matilde non ce l’aveva mai detta!
La somma degli interessi privati, congiunta con linee urbanistiche tendenti a rendere Roma più lineare, a toglierle quel tanto di tortuoso, di paesano, in una parola a renderla più piemontese, confluisce in un piano urbanistico approvato nel luglio 1873, all’indomani della legge che estende anche a Roma l’abolizione dell’asse ecclesiastico.
Per altro verso la nuova Roma viene modellata da ben differente, enorme progetto che prevede la costruzione dei famosi “muraglioni” ad imbrigliare il Tevere: il quale provvedimento si avverte essere di chiara discendenza parigina, già adottato con successo in Torino, ma sempre in contesti storico-paesaggistici diversi nonché in differenti condizioni idrauliche. Il provvedimento non salverà dalle grandi piene, come si vedrà nel dicembre 1937, ma certamente proteggerà da quelle minori.
L’occasione si presentò già subito dopo l’arrivo dei “buzzurri” del 20 settembre 1870, nella spaventosa esondazione del Tevere che, iniziata il 28 dicembre, durò alcuni giorni, costringendo molti romani a restare chiusi in casa senza viveri, senza risorse, al freddo, in prossimità del Capodanno più rovinoso che fosse dato loro conoscere. A conti fatti quell’episodio, che molti a Roma erano disposti a credere una risposta del cielo all’empia invasione delle armi piemontesi, è risultato paragonabile alle grandi analoghe catastrofi del ‘500, quando per la durata del secolo tutto il bacino mediterraneo fu soggetto ad un clima così rigido che i paleobotanici lo indicano come “della piccola glaciazione”. Si moltiplicarono allora le proposte ai massimi livelli tecnici e decisionali: Garibaldi, passato nel frattempo deputato, propose in parlamento di deviare semplicemente il Tevere, facendolo passare dietro il Gianicolo. Ci mancò veramente poco perché l’idea fosse approvata, ci volle l’intervento del pagano dio Tevere unito al buon senso di qualche senatore, perché la città non cambiasse completamente volto. I muraglioni furono il male minore, il prezzo da pagare al nuovo padrone.
Addio agli scali fluviali, ai mulini (le mole) ad acqua, ai panni lavati e sciorinati sul greto: addio alle grandi ville con i loro imbarcaderi, alle prese d’acqua (ancora potabile all’inizio dell’ottocento), addio al paesaggio; ma anche addio al teatro Apollo, a chiese e abitazioni lungo le rive, a parchi, giardini, paesaggi, memorie, cippi, glorie, costumi; finiti anche i traghettamenti che pure davano da vivere a qualche vecchio Caronte. Non tutti i romani tuttavia, ad un secolo di distanza, hanno rinunciato ai loro inveterati diritti, la pesca, ad esempio, che prima si praticava con barche e con reti, oggi con insulse canne e con l’amo. Ad altri diritti più personali, i romani, dispero rinuncino mai.
Nel riassetto dei lungotevere i costruttori di allora hanno inserito enormi collettori fognari, primo vero intervento igienico cittadino. Cento metri era stabilito dovessero lasciare al fiume i due muraglioni opposti, meno le banchine di consolidamento al piede; l’intera opera fu iniziata nel 1877 e potè dirsi conclusa solo dopo cinquant’anni.
Non mancarono comunque i nuovi pianificatori capitolini di impreziosire il paesaggio urbano che sarebbe scaturito dalla costruenda fascia fluviale e viaria, imponendo che le nuove costruzioni da impostare ai suoi margini si dovessero dotare di alti portici, (possibilmente scuri come quelli di altre città più settentrionali): sorsero così i tre tratti che oggi allietano la città, rifugio di quanti temono il sole. Il più vistoso è sotto la casa “dei cento preti”, a Ponte Sisto, costruzione sorta ad occupare l’area residuante dallo spostamento del Fontanone dell’Acqua Paola; questo, a sua volta, già sorto a scenografica quinta fondale della Strada Giulia, oggi, sulla riva opposta, fornisce conclusione architettonica ai cessi pubblici della retrostante Via Benedetta.
Superfluo notare che ai colori chiari delle case di Roma viene sostituito un ocra diffuso dappertutto,
il minimo necessario per dare la nobilitante pennellata piemontese ad una città imbarbarita.
Il piano regolatore del 73 dispone peraltro una serie notevole di sventramenti, tutti volti alla auspicata regolarizzazione della città: fra questi solo alcuni furono intrapresi, quasi nessuno concluso. Dieci anni dopo la città adotta un nuovo piano regolatore, supportato questo dalla dichiarazione di pubblica utilità delle opere che vi sono raffigurate. E’ ormai uno strumento operativo, coperto in parte da finanziamenti pubblici, efficace, in grado di dirigere le linee di espansione urbana, di disegnare i nuovi insediamenti periferici. Peccato che, come il precedente, sia disegnato per una città piatta almeno quanto la tavola che la raffigura: non c’è da stupirsene, se già Valadier (1762 – 1839) ancor’oggi celebrato per le sistemazioni del Pincio e di Piazza del Popolo, non potè vedere eseguito il suo progetto di collegare quelle due località, quasi contigue, con un unico tronco viario rettilineo, così come aveva deciso, a causa di trenta stupidi metri di dislivello!
Per quanto ci interessa il piano dell’83 ripropone una serie di sventramenti, tra cui quello della via che dovrà unire Montecitorio al Traforo: si demoliscono tutte le costruzioni che occupano l’area dell’attuale Galleria di Largo Chigi, si allarga il tratto basso della attuale via del Tritone. Il Traforo però tarda, i lavori trovano ostacoli e si prolungano nel tempo; la via che doveva imboccarvi rimane così senza sfogo.
Nel 1885 lo Stato acquisisce la Villa Borghese, che poi gira subito al Comune; l’ingresso monumentale, subito fuori della Porta Pinciana, giustifica l’apertura della elegante Via Veneto a partire dalla Piazza Barberini; con quel bel po’ di supporto il Principe Ludovisi, con convenzione raggiunta col Comune nel 1886, dà il via alla lottizzazione della sua splendida villa, tutta contenuta entro le Mura aureliane. La zona diviene il fulcro di grossi interessi, la via del Tritone sarà necessariamente prolungata fino alla Piazza Barberini.
Due anni dopo inizia un servizio pubblico di trasporto persone, a mezzo carri trainati da cavalli.
Tutta la città cresce occupando ogni lotto rimasto libero, la costruzione di nuovi ponti sblocca i collegamenti interni: sono i ponti Sublicio, Palatino, Garibaldi, del 1888; il Regina Margherita, del 1891, il Cavour e l’Umberto I°, entrambi del 1895.
I privati interessati alle costruzioni in Prati, avevano già gettato nel 1879 una passerella in ferro attraverso il fiume in coincidenza del demolito Porto di Ripetta: rimarrà fino al 1900, quando sarà reso inutile dall’entrata in servizio del Ponte Cavour.
L’Ingegnere francese A.G. Eiffel costruisce per l’esposizione mondiale del 1889 la famosa torre in acciaio alta trecento metri, destinata a rimanere quale simbolo stesso di Parigi nel mondo.


C – Memorie e testimonianze


Trascrivo qui altre notiziole raccolte qui e là, supportate a volte da scritti di Nonno Paolo, più spesso da lettere a lui dirette: attengono alla sua formazione, poi alla sua maturità.
Roma costituirà sempre il quadro in cui spenderà la sua vita insieme con la famiglia, Velletri resterà invece più defilata dopo la morte del nonno e della zia Nena.
La figura del padre costituirà purtroppo sempre l’incubo che lo perseguirà fino all’ultimo, quando quegli finirà i suoi giorni (1905) internato in un Ospedale psichiatrico.

La formazione di Paolo
Gli studi classici al collegio sono ormai terminati, Paolo rientra a Roma da sua madre; intraprende l’università, si iscrive a Giurisprudenza: non è più tempo di graduarsi in “utroque jure”, il diritto è ormai unico, quello civile, uguale in tutta Italia.
Per gli affari ufficiali Paolo è sempre sotto tutela: l’Avv. De Andreis che da anni segue per suo conto le contorte beghe ereditarie, avrà forse influenzato la sua scelta? In tutti i casi Paolo va avanti, raggiunge l’emancipazione, come di norma, a ventun’anni; non manca però di assistere a molti drammi della madre Marietta, spesso sopraffatta dalla spregiudicata arroganza e avidità di Geraldo, priva di difese, incapace di sopportarne le angherie. Paolo decide di dedicare la sua vita a difendere quella donna che dalla famiglia ha avuto solo dolori. Una volta deve ricorrere persino alla forza pubblica, quando trova il padre in preda a furore, determinato a sfondare l’uscio della casa di Marietta. Geraldo non è nuovo a questi episodi, i Regi Carabinieri ben lo conoscono da tempo.
De Andreis spiega a Paolo la situazione patrimoniale sua e della madre, le tortuosità delle cause tuttora in piedi per l’eredità di Virginio, distinta tra la porzione primogeniale al figlio Geraldo ed a Paolo stesso; la parte personale libera da vincoli, in parti uguali fra i figli, per la legittima; alla sola Filomena “innupta” la disponibile; quella zia Nena, che aveva a sua volta favorito proprio lui, Paolo, suscitando una opposta causa promossa dalla zia Laura, ormai mollata dal marito Giannuzzi e sufficientemente inviperita.
Rispunta ancora fuori, nel maggio 1890, un verbale di liquidazione fra gli eredi di Virginio, defunto già nel 1874, quando Paolo aveva undici anni: tra vendite all’asta, frutti, interessi, residui, creditori, avvocati da pagare, dopo sedici anni di carte bollate resta ormai ben poco; Paolo, rappresentato dal curatore di turno Giuseppe de Angelis, viene liquidato con un paio di migliaia di scudi, lordi, naturalmente.
Paolo ha però le idee chiare: che tutta quella gente, parenti stretti del padre, si azzuffino come credono fra loro, lui se ne tira fuori, o se ne tirerà fuori appena possibile; continuerà ad occuparsi solo di sua madre, la proteggerà, le darà tutto l’affetto che per anni l’intera famiglia le ha negato.
Paolo si avvia agli studi munito di regolare Nulla Osta papale per la lettura dei “Libri proibiti” ottenuto a seguito di domanda del 28 aprile 1882. Di seguito, a vent’anni, riceve il Foglio provvisorio di congedo “di terza categoria” del distretto militare, in data 31 ottobre 1883.
Quando muore Agostino, fra quelle due date, Marietta perde un grosso sostegno, ma ha ormai Paolo tutto per sé.
Paolo in quegli anni consegue la laurea, si avvia alla professione. Osserva i lavori per l’adeguamento di via del Tritone andare avanti, ma è ottimista, ritiene come tutti, che questi debbano limitarsi a collegare Largo Chigi col Traforo; cominciano ad arrivare le prime avvisaglie, poi le carte bollate; sembra chiaro che quelli del Comune facciano sul serio, vogliono proprio intaccare profondamente la sua casa di Piazza Barberini. Negli uffici del Campidoglio intanto si avvicendano i Sindaci, fra loro alcuni ben determinati, altri più remissivi. Le scaramucce sono ad un punto morto quando, dopo una breve malattia, Marietta Del Re Macioti muore a quarantasette anni, nella sconsolata rassegnazione del figlio. Paolo acquista per lei una sepoltura nel cimitero Verano di Roma, Cappella del Preziosissimo Sangue: non nella antica tomba dei Macioti in Velletri, nel pavimento della Chiesa di San Michele Arcangelo; non nella sepoltura del padre di lei nella Chiesa Nuova in Roma; la vuole tutta per sé, in una sepoltura nuova.
Detta per lei un toccante commiato incidendolo nel marmo: Maria Del Re Macioti – Dio provatala in molte avversità – la volle ricongiunta ancor giovane – ai suoi angeli Alessandro e Cecilia – il giorno dell’Immacolata 1889 – Prega sempre benedetta – pel desolato figlio tuo –
La iscrive ancora per suffragio alla Ven. Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orazione e morte.
Nella sua stessa cappella era già stato inumato il discusso Rev. Mons. Luigi Macioti Toruzzi, defunto l’anno prima a ottantasette anni, su precise istruzioni da lui medesimo dettate.
Non abbiamo alcuna notizia di quale parte abbia recitato Geraldo per il funerale di sua moglie, certo Paolo avrebbe voluto nessuna.
Paolo resta ormai solo, sa però di aver fatto quanto poteva per aiutare la madre almeno nella misura delle sue forze. L’ha protetta e difesa, le ha assicurato degli anni quasi normali, ha solo fallito nel difenderla dal morbo assassino.
Due mesi e mezzo dopo la perdita della madre Paolo chiede al Pretore di poter visionare i verbali del Consiglio di Famiglia di Agostino Del Re: è il 26 febbraio 1890; per la prima volta lo troviamo firmarsi “Procuratore”.

La maturità
Paolo abita sempre nella casa di sua madre in Via di Campo Marzio 63: oggi cercheresti invano quella casa, è stata spianata in un qualche successivo programma di abbellimento urbano, così che anni dopo gli On. Parlamentari possano ricoverarvi le loro on. auto blù.
Ma Paolo comincia a preoccuparsi seriamente per la sorte della casa di Piazza Barberini: dal Comune notizie sempre più allarmanti, il progetto di estendere via del Tritone fino a collegarla a via Veneto, allargandone sensibilmente la carreggiata, sta ormai divenendo realtà.
Se rimiriamo il magistrale acquarello di Ettore Roesler Franz chiamato “Piazza Barberini”, dipinto, come tanti altri nello scorcio del secolo, vediamo bene come si presentava la casa di Paolo quando ormai ne era segnato il destino: più che una casa, ne erano due, contigue fra loro, così come due erano i portoni, il 51 ed il 52, ancor’oggi conservatisi; una casa bassa, a due piani, che nel dipinto fa da sfondo alla fontana del Bernini, confinante con la via del Tritone: Roesler Franz la raffigura come lui la vedeva, paesana, schiacciata sotto un tetto sproporzionato, gli intonaci sciupati; è la casa da cui avrebbe dovuto essere sezionata una porzione, una grossa fetta, circa la metà, quanto sufficiente per portarla al filo delle altre case della nuova arteria; l’altra porzione invece a quattro piani, sempre di aspetto paesano, protraentesi fino alla via degli Avignonesi, dove apriva due portoni, il 77 (tuttora esistente) ed il 78.
Paolo valuta quanto ha recentemente rimarcato in ordine agli sventramenti per l’apertura del nuovo Corso Vittorio Emanuele II°, dove case e casette sono tutte cadute sotto il piccone del nuovo Urbanista, mentre i Palazzi storici gentilizi sono risultati per lo più risparmiati da un accomodante tracciato generale sinuoso, utile per conferire il migliore aspetto alla nuova arteria intitolata al primo Re d’Italia e rispettoso nel contempo degli interessi dei Signori Proprietari. Al risultato non sono evidentemente estranei i gran signori che si susseguono, ormai non più con continuità, sullo scranno di Sindaco di Roma: essi, avendo interessi personali e di casta, finiscono per accontentare molti proprietari, rallentando di fatto l’attuazione del piano.
Paolo decide quindi di tentare di combattere una sua guerra privata contro le assurde pretese del Comune che, a conti fatti, gli vuole portar via un terzo della casa di sua madre: farà trovare davanti agli iniqui picconi un edificio che somigli molto ad un palazzo, e poi si vedrà se andranno ancora avanti nelle loro pretese. Detto e fatto, comincia con il sopraelevare la porzione più bassa della proprietà fino a farle raggiungere i quattro piani, l’altezza dell’altra porzione; investe così un patrimonio nei rifacimenti e nella omogeneizzazione delle due facciate contigue.
Una leggenda familiare si colloca proprio a questo punto: dice di Paolo in maniche di camicia sulla terrazza della sua sopraelevazione intento a dare disposizioni agli operai, a misurare, verificare la congruità delle strutture. Di lassù, narra sempre la leggenda, avrebbe visto una graziosa ragazza sul terrazzo di una casa non troppo lontana: guarda oggi, guarda domani, la ragazza che forse non era neppure giovanissima si accorge di quelle attenzioni; quando i due si incontrano alla Messa domenicale nella Parrocchia di lei – SS. Vincenzo e Anastasio a Trevi, la chiesa per il completamento della quale il Mazzarino dovette pur ricordare di essere un ecclesiastico - si riconoscono, si salutano; evidentemente si piacciono, se di lì a qualche tempo Paolo sale la scala della abitazione di lei, via in Arcione, ex serbatoio dell’Arcadia, dove gli Ojetti vivono da più di una generazione.

La moglie, Rosina Ojetti,
studio fotografico, circa 1910

La presentazione a Pasquale Ojetti, padre di Rosina, si risolse in un disastro appena Paolo pronunciò il nome della propria famiglia: incredulità, stupore, orrore!
Paolo nulla sapeva del dramma vissuto dal suocero di Pasquale, Ludovico Fausti, condannato parecchi anni avanti, senza prove, accusato di tradimento, giudicato in una farsa di processo architettato dall’onnipresente machiavellico Monsignor de Mérode: uno dei giudici, ahimé era stato proprio Monsignor Macioti Toruzzi![i]
Paolo e Rosina però si sposarono, Paolo non era responsabile di nulla; fu anche necessario astenersi dal fare troppe domande sul conto del padre di Paolo. Al matrimonio, un limpido 24 agosto 1893, tra i parenti di Paolo, nelle fotografie, si riconosce appena Giuseppe Becchetti, alto ed azzimato ufficialetto in divisa, figlio della zia Clelia; e forse, non ne sono sicuro, lo zio Vincenzo da anni sposato con Maria, ultima erede dei marchesi Giberti Missini, in grado di tirare un po’ su il tono dei Macioti.
Per la sposa, oltre i genitori, Pasquale con baffoni e favoriti bianchi, Berenice Fausti con immancabile vestito nero ed acconciatura in testa, c’era una folta rappresentanza della famiglia Ojetti: dal fratello maggiore Gesuita, Benedetto, alla serie delle sorelle, compresa la minore, Olga, appena undicenne; e ancora gli zii Enrico e Adolfo, gli altri zii Fausti, col vescovo Mons. Tancredi, e con Guido, ambasciatore di non so quale paese dell’America Latina presso il Vaticano.
Nonostante le facce lunghe che si usava allora inalberare per consegnarle ai posteri, il matrimonio deve essere stato felice, ben ambientato nel giardino di una villa, adeguatamente ornato di piante e fiori.
Paolo, un pezzo d’uomo, trentenne, ben elegante in abito nero da cerimonia, con cilindro in mano, guarda negli occhi Rosina, un drappeggio di merletti bianchi a coprire una corporatura bassa, abbondante, gran bouquet di fiori in mano, mia nonna! d’un anno scarso più giovane di lui.

In qualche tempo di quei frangenti deve collocarsi il racconto – ma sarà stato proprio così? – di Paolo in viaggio a Parigi, senza sapere una parola di francese, alle prese con i problemi più semplici della logistica che riguarda qualsiasi viaggiatore: problemi poi risolti fortunosamente da un farmacista colto, buon conoscitore, come Paolo, del latino, e come lui altrettanto fresco di buoni studi classici. Semprechè il viaggio non si fosse invece reso necessario per una ennesima bravata del padre, cacciatosi in altri guai anche nella Ville lumière. Ad ogni modo il terribile mal francese si poteva prendere ovunque, non occorreva andare in Francia: mieteva ovunque fior di vittime prima dell’avvento degli antibiotici.

La famiglia di Paolo
Anche da sposato Paolo si sistema nella casa di Via Campo Marzio 63; lì nasce per primo Carlo, il 24 maggio 1894, alle nove e mezzo del mattino, (di giovedì precisa l’appunto steso dalla stessa trepidante mano del nuovo padre); battezzato alle otto di sera nella parrocchia di San Giacomo al Corso, padrino lo zio Benedetto, compare il nonno Pasquale; gli furono imposti i nomi Carlo, Virginio, Filippo, Maria.
Il secondo figlio fu Guido, nato il 31 agosto 1895 alle undici e mezzo di sera; battezzato dallo zio Benedetto, padrino il prozio Nazareno Fausti, stessa parrocchia, nomi: Guido, Agostino, Filippo Maria. Anche il terzo figlio è maschio: Giorgio nasce il 29 aprile 1897, viene battezzato in Santa Maria in Aquiro dal solito zio Benedetto, padrino lo zio Vincenzo Macioti; i nomi sono: Giorgio, Alessandro, Filippo, Maria.

Nonno Paolo con il figlio Mario,
studio fotografico, circa 1904

A buona distanza di parecchio tempo è ancora maschio il quarto figlio: Mario nasce il 29 dicembre 1903, è già un figlio del nuovo secolo; il battesimo gli sarà impartito il 5 gennaio nella ritrovata parrocchia dei SS. Vincenzo e Anastasio a Trevi: la famiglia è infatti tutta concentrata in Piazza Barberini, ultimo disperato tentativo di Paolo di arroccarsi nella sua casa sempre più da presso minacciata. Il bambino si chiamerà Mario, Pasquale, Filippo, Maria. Finalmente nasce una bambina, dopo un altro bel pezzo: è Maria Teresa, nata il 23 maggio 1907; il battesimo, amministrato ancora dallo zio Benedetto Ojetti, sempre nella parrocchia dei SS. Vincenzo e Anastasio, è del 19 giugno; madrina la nonna Berenice, i nomi: Maria Teresa, Marcella, Cecilia, Anna, Filomena, Laura; nonno Paolo non dimentica le donne di famiglia che ha amato; Maria Teresa nasce ancora in Piazza Barberini è questo uno degli ultimi atti nella casa di Paolo, casa così disperatamente difesa.
Ma le cose si vanno mettendo male; anzitutto la salute di Rosina già da tempo declina, i medici consigliano, chi aria di mare, chi la campagna; le villeggiature si susseguono regolarmente, almeno in agosto: nel 1897 a Manziana, nell’agosto 1898 Rosina ha avuto una prima forte crisi mentre era in villeggiatura a Porto San Giorgio con i tre figli. All’inizio del 900 sembra stare un poco meglio, anche se i medici non sono concordi né sulla diagnosi né sulle cure.
La città di Roma va ammodernandosi, la gente già dall’inizio dell’anno giubilare 1900 comincia ad abituarsi allo sferragliamento dei primi “tramways” elettrici; anche quelli sono esigenti, necessitano di strade dritte e larghe.
Ormai Paolo non trova più presso il Comune né dialogo né comprensione; l’esproprio di un gran tratto di casa non è più un’ipotesi, si parla di tempi ridottissimi per le demolizioni, Paolo rifiuta ostinatamente l’indennità di esproprio che ormai da anni gli è stata indicata, l’accettarla equivarrebbe alla resa incondizionata. Il colpo di grazia gli giunge con l’avvento come sindaco proprio di Ernesto Nathan, alla fine del 1907, il grande esponente della sinistra repubblicana, il laicissimo gran massone, creatura in ogni senso di Mazzini; da lui non ci si può attendere alcuna remissione, è esclusa qualsiasi apertura; da qualche parte al Comune si potrebbe ancora rintracciare un fascicolo a nome Macioti: pare debba contenere un principio giuridico in materia espropriativa espresso per il suo caso, ma che poi avrebbe preso valenza generale. Paolo rifiuta a quel punto perfino l’indennità, perde insieme la casa, tutto il lavoro che vi aveva profuso, l’eredità ricevuta da sua madre. Da quel momento in poi andrà sempre ramengo in locazione, di casa in casa, in vari quartieri di Roma. La città vede la nuova arteria allargata, vi passano persino a doppio senso i nuovi tram elettrici.
La residenza nella propria casa di piazza Barberini era durata dal declino del 1902 a tutto il 1907, cinque anni in tutto, durante i quali le villeggiature erano state fra le più lunghe che le scuole dei ragazzi consentissero: ogni anno l’estate a Porto d’Anzio, ma anche l’autunno ad Ariccia (1902), a Spoleto (1905).
In quegli anni G. Marconi fa scoperte innovative, altamente promettenti: nel 1895 realizza la prima trasmissione a onde elettromagnetiche; nel 1901 trasmette un messaggio dalla Cornovaglia (Poldhu) all’altra faccia della terra, in Tasmania.
A Roma intanto si costruisce il Palazzo di Giustizia in Prati (il Palazzaccio, per i romani), tra il 1889 e il 1910. I Ponti Cavour, Margherita, Umberto I° sono tutti dell’ultima decade dell’Ottocento.
Il Ponte Risorgimento, di Hennebique, ad unica luce, è del 1910.
Le prime linee elettriche in città erano entrate in esercizio sperimentale nel 1892.

Paolo dovrà trovare un alloggio conveniente,sufficiente per tutti i suoi figli: si guarda intorno perché ormai non ha più alcuna abitazione del suo; non sappiamo cosa sia successo di quella in via di Campo Marzio, quando l’abbia perduta; anche l’altra che era stata di Agostino, in via San Nicola da Tolentino è sparita da sempre dagli orizzonti, non se ne è mai trovata notizia. Una casetta che a noi ragazzi è stata indicata più volte come già della famiglia, ma di cui non vi è traccia in nessuno scritto, sembra fosse nel centro dell’odierno largo Febo, dietro Piazza Navona, demolita per dare sfogo alle case circostanti. Di altre proprietà che avrebbero potuto derivargli dal padre, defunto nel frattempo (1905) nella peggiore delle condizioni, non vuole neppure sentir parlare: da anni ormai ha rinunciato giudizialmente a percepirne alcunché. Trova infine in locazione un buon appartamento a poca distanza da quella che era stata ultimamente la sua casa, in via Sistina 22. Sarà da quel giorno in poi un affittuario, in questa occasione della discussa Linda Murri Bonmartini [ii]: resterà in quella casa fino a tutto il 1922, quindici anni, la permanenza più duratura nella quale si fermerà. Da papà nostro abbiamo sentito più volte che quella è stata per loro ragazzi la vera abitazione..
Si susseguono ancora villeggiature in vari posti convenienti per la salute sempre più fragile di Rosina; nell’estate 1906 tutti a Rocca di Papa, mentre Paolo si reca qualche giorno in cura a Montecatini, e di lì prosegue per lavoro in treno a Milano, Genova, Torino. In tutti i suoi spostamenti è sempre accompagnato o preceduto dalle lettere di Rosina, “posta restante”; guai a non avere notizie da casa, sono telegrammi che si incrociano. Nel 1907 tutta l’estate a Porto d’Anzio, Paolo in tour di lavoro a Firenze, Bologna, Venezia, Verona, Milano, Innsbruck; ed in altro viaggio a Ginevra. L’estate del 1908 scorre senza scambi di lettere, saranno stati tutti insieme in villeggiatura. Nel 1909 ancora Paolo in cura a Montecatini, a fine agosto, mentre tutti gli altri sono in una lunga vacanza a Porto d’Anzio: persino la minuscola Maria Teresa, appena di qualche mese.
Purtroppo nonostante cure, vacanze, villeggiature, Rosina, la fedele Rosina che aveva dedicato a Paolo interamente la sua vita, che mai aveva interferito con le sue intemperanze, le sue impuntature, le sue inamovibili decisioni, Rosina muore nella casa di via Sistina il 17 dicembre 1910: incredibilmente, anche lei a quarantasette anni! Paolo non riesce a capacitarsene, c’è qualcosa di arcano, un sortilegio, un fato avverso che lo colpisce.
Noi tutti abbiamo il triste ritratto della famiglia in lutto, ognuno disposto in posa nel gabinetto del fotografo, nonno Paolo con lo sguardo assente, sprofondato in una poltrona, la barba già sale e pepe; Maria Teresa di due anni, vestita di bianco, da un lato; i maschi in nero, tutti dall’altro; Mario, a sette anni, ha già avuto da tempo la paralisi infantile che lo condizionerà tutta la vita. Il maggiore, papà nostro, ha sedici anni, è pertanto il più cosciente di tutti, parlerà spesso, in futuro, a noi figli, della gravissima perdita subita in gioventù.

La sua vita da vedovo
Paolo si concentra sui suoi cinque figli, specie sui due piccoli: Mario, deboluccio, ha bisogno di cure, distrazioni, ha una menomazione evidente, certamente ha problemi coi suoi amici e compagni; Maria Teresa, Mesa, è talmente piccola che non si rende conto di molte cose, chiede a volte della mamma, l’aspetta; tra i tre grandi c’è solo Guido che dà problemi, ma di altro tipo: vive per conto suo, vuole la sua indipendenza totale, non accetta di essere segnato come già Carlo e Giorgio alla Congregazione Prima Primaria, o dei nobili, presso la chiesa di Sant’Ignazio. Tutti i maschi frequentano con profitto gli studi classici al Massimo, da quel lato almeno nessun problema; così Paolo si può dedicare alla sua professione di avvocato aiutando parenti ed amici a risolvere i loro problemi legali, o, come lui preferisce, difendendo i poveri: mai infatti prenderebbe un soldo da chi che sia, le sue capacità ed il suo impegno professionali essendo ovviamente al servizio degli altri, non certo al loro carico. Così almeno i parenti sperano che possa distrarsi; alcuni amici gli suggeriscono perfino di assumere questa o quella signora o signorina che potrebbe occuparsi della casa, dei bambini; tutto bene, ma lui non vuole nessuna persona estranea la sera in casa. La sua famiglia è definitivamente quella che Rosina gli ha dato, non vuole nessuna ingerenza esterna.
I ragazzi crescono, uno alla volta arrivano all’università, i maschi, beninteso! Così Carlo su incoraggiamento dello zio Adolfo Ojetti si iscrive ad Ingegneria, ovviamente alla Sapienza - l’ingresso alla facoltà è a quel tempo dalla piazza di Sant’Eustachio, presso il ritorto culmine borrominiano, nel complesso di Sant’Ivo -. Lascerà con rimpianto al liceo il dotto Padre Rocci, insegnante di greco, il cui dizionario sarà ancora il più diffuso durante gli studi di noi figli; frequenterà poi a lungo Sant’Ignazio, dove sa di poter contare sul Padre Felice Maria Cappello, da tutti ritenuto un santo, confessore di mezza Roma, che vivrà e dispenserà preziosi consigli ancora per molti anni. Guido, avendo un debole per gli affari, si dedicherà allo studio delle Scienze Economiche e Commerciali: per il momento accarezza grossi progetti, sembra ottimista. Giorgio, più tranquillo ed affezionato al padre, si avvia alla sua stessa carriera legale.
Intanto gli anni passano, si avvicina la guerra; Carlo è il primo ad arruolarsi, andrà volontario come giovane ufficiale poco dopo la dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915, la data del suo ventunesimo compleanno; arruolato nell’artiglieria, presterà servizio al fronte come tenente e per più rigidissimi inverni in trincea, sul Grappa ed in varie località del Veneto. “A Campolongo ho visto Maciotino molto simpatico e semplice” scriverà di lui Ugo Ojetti, cugino di Rosina, nel volume “Lettere alla moglie”, alla data del 7 maggio 1916, durante una visita al fronte al seguito del Re Vittorio Emanuele. Poi partirà Guido, gli toccherà una brutta avventura nella rotta di Caporetto: pare che, caduto in un fosso, stordito da una bomba, vi restasse due giorni, creduto morto. La famiglia addebiterà a quello shock le sue successive stranezze. Giorgio andrà sotto le armi verso la fine della guerra, vi prenderà fortunatamente una parte minore.
Ad ogni figlio che partiva per il fronte Paolo pregava ferventemente Dio di proteggerlo, mentre dal suo canto lo provvedeva di un baule pieno di vestiti caldi e lo dotava di un buon cavallo da sella. Il bel morello di Carlo si chiamava Doberdò, come il paese del Friuli ancora in mano austriaca.
All’indomani della guerra, ci voleva pure la depressione! Concludono i loro studi lasciati interrotti uno alla volta i tre “grandi”; nel 1922 Carlo vince un concorso e va a Rio de Janeiro a dirigere i lavori del padiglione italiano alla Fiera Internazionale: è per lui un ottimo successo, un trampolino di lancio per la carriera. Al rientro si lascia convincere da Guido, gli consegna il buon gruzzolo che ha ricavato, le promesse di un suo incremento sono ottime, il fratello ne è garante.
Nello stesso anno spunta fuori Mussolini, con la sua marcia su Roma, in un fracasso di slogans e di propaganda. Paolo, che non ama le novità, diffida delle fanfaronate; come già aveva diffidato delle camice rosse, così parimenti rifiuta quelle nere. Diverso sarà per i ragazzi, loro dovranno convivere a lungo con quella propaganda, quella retorica nazionalista.
In pari tempo risulta chiaro che Guido stà bruciando le risorse che da varie parti della famiglia gli erano state affidate, ma anzi, ha alle calcagna vari creditori inferociti: chiede prestiti a tutti i parenti con le motivazioni più disparate, promettendo rapidi e sicuri rimborsi, interessi eccellenti; firma cambiali, corrisponde assegni, rilascia ricevute; poi puntualmente prega tutti di non utilizzare quei titoli, a breve potrà restituire quello specifico prestito; ma stà sempre bene attento che gli uni non sappiano degli altri; scrive letterine giustificative a Paolo, lo ringrazia per i prestiti, per aver ritirato le gioie di Giulietta impegnate – già perché nel frattempo è riuscito persino a sposarsi, impalmando una cugina seconda, Giulietta Cavaceppi, la cui nonna materna, da cui aveva derivato il nome, era Giulia Fausti, sorella minore della propria nonna materna Berenice Fausti -; non a caso Giulietta godeva di una florida situazione economica; il matrimonio arriva giusto in tempo, la figlia Rosina (poi detta sempre Rosella) nascerà il 30 settembre 1924, e sarà la prima della nuova generazione; Guido assicura il padre che quanto prima gli restituirà ogni cosa, ma poi invece appena sposato scappa dall’Italia, senza neppure conoscere prima la figlia, riuscendo a sottrarsi alla carcere per bancarotta fraudolenta. Un vero shock per tutti, per Paolo un rivivere nuovamente le bravate, le torture inflittegli dal padre. Guido rientrerà in Italia dopo alcuni anni, fruendo di un’amnistia; nel frattempo la moglie Giulietta, ospite dei suoi al palazzo di Largo Argentina allora di Besso, avrà consumato buona parte delle sostanze che suo padre aveva lasciato a lei ed al fratello Carlo Ranieri. Le bravate di Guido bruceranno in breve, dopo il suo rientro, quanto ancora rimane a Giulietta, fra cui due intere case “da cielo a terra” in via della Vite!
Nel frattempo Paolo non rinuncia al suo moralismo, a modo suo manifesta il suo giudizio sulla sua padrona di casa, prendendo ad indirizzare la locazione: alla “Contessa Bonmartini Murri”, finchè quella non ne potrà più: alla prima occasione disdirà il contratto; Paolo dovrà trovarsi un altro alloggio; lo cercherà lì intorno; ma senza fortuna.
Ci sarà forse un passaggio di Paolo per via Cola di Rienzo, dove gli arriva la posta al civico 217 nello scorcio del 1925; tra le altre una missiva, inviatagli da Guido con quell’indirizzo, è incomprensibilmente rivolta all’Avv. Giuseppe Macioti (timbro di partenza del 19-20 dic. 1925). E’ un mezzuccio per camuffarsi, un trucco, o veramente Guido comincia a perdere la bussola?
Paolo si trasferirà l’anno successivo in via dei Pontefici 27, al quarto piano. Lì presso, nella cavea del Mausoleo di Augusto la Filarmonica Romana tiene i suoi concerti; ma ahimé tutta la zona è interessata da un altro improvvido piano di risistemazione: come da copione è prevista la demolizione di tutti gli edifici che circondano il Mausoleo, ovviamente anche la nuova abitazione della famiglia. L’ultimo concerto sarà tenuto nel Mausoleo nel 1935, poi anche la Filarmonica deve trasferirsi: troverà una sede fissa solamente 65 anni appresso. Il Mausoleo, ormai vuoto monumento, mezzo interrato com’è, resterà avvilito dalla prepotenza di osceni peristili per tre lati di una banale piazza squadrata che lo isola dalla città.
La famiglia resterà in quella casa almeno fino a tutto il 1928, quando dovrà nuovamente trasferirsi per far posto al piccone.
Nel frattempo Giorgio sposa nel 1926 Giuseppina di Prisco, di puro sangue vesuviano: Marisa nascerà dopo un anno. Viene qui acconcio dire di Giorgio, il più tranquillo e silenzioso della famiglia, sempre gentile con tutti, bleso quanto basta, i grandi occhi azzurri che gli avevano valso da bambino il soprannome “occhio”. Spenderà la sua vita nella Avvocatura dello Stato, i primi anni ad Avezzano, poi più o meno sempre a Roma, raggiungendo i vertici della carriera.
Mesa sposa l’ing. Marcello Lais nel ’27; il suocero, Filippo, ha una splendida villa sulla Tuscolana, via della Marranella; dove loro sposi andranno a vivere, fra cedri secolari, bulbi olandesi, cavie nelle gabbie.
Carlo, infine, sposa il 12 giugno 1928 Bianca Colonna di Stigliano, nozze benedette dal Cardinale Ascalesi, Arcivescovo di Napoli, nella sua cappella privata. La prima figlia, Flaviana, nascerà nella loro abitazione di Lungotevere Sanzio n° 1, il 3 aprile 1929.
Paolo trova altra abitazione in Prati, via Ennio Quirino Visconti 55, primo piano, interno tre: ve lo troviamo a partire dal primo agosto 1929. Gli rimane in casa solo Mario, finchè anche lui si sistemerà in una propria abitazione: potrebbe essere quella che ricordo appena, nel quartiere del Testaccio.
Paolo è ancora nella abitazione di Prati, quando nascono uno dietro l’altro altri nipoti: Marisa di Giorgio è del 1927; Graziella di Mesa è dell’anno successivo; ancora di Mesa è Roberto, del 29, pochi giorni dopo è la volta di Flaviana, Nanà, sorella; Adriana, ancora di Mesa, è della primavera del 30; dell’agosto, nello stesso anno, il giorno due nascono contemporaneamente Valeria di Giorgio e Manfredo, mio fratello, detto Dodò; nonno Paolo che fino a un’ora prima, fra tutti i Macioti aveva registrato sempre solo bambine, quando Papà lo chiamò per annunciare il suo primo maschietto si sentì dire un “mi rallegro, sarà sempre una femmina!” Nel 1931 è la volta di Corrado di Mesa, dopo un mese è il mio stesso turno; all’inizio del 1933 rientra Guido in Italia, fruendo di una amnistia: a fine d’anno gli nasce Maria Grazia. Termina qui la fase prolifica intensa di tutti gli sposi Macioti. Seguiranno ancora a gran distanza, i “figli della guerra”: sono Maria Laura di Mesa, del 1941 e poi Maria Immacolata, mia sorella, della fine ’42. Paolo, mio ultimo fratello, completa la serie nel 1950, unico nipote, fra l’altro omonimo, che nonno Paolo non farà in tempo a conoscere: tutta la schiera della discendenza salirà così a quattordici nipoti, di cui cinque maschi.

L’ultimo periodo
Gli anni trenta scorrono lentamente, Paolo è molto solo, le visite a turno ai figli non gli riempiono la giornata: nel ’33 compie settant’anni, rallenta anche il lavoro; Mario, che essendo scapolo gli è più vicino, studia medicina, si laurea anche bene, comincia ad avere le sue occupazioni, (più che altro distrazioni), ragazzate in compagnia del cugino Francesco Ojetti, anch’egli medico. Poi le strade si diversificano, Mario si specializzerà come malariologo; lavora qualche anno in quel settore, quando appare chiaro che tutta quell’arte è superata dai nuovi preparati mirati a distruggere l’anofele. Mario cambia ruolo, apprezza sempre più i guadagni, si convertirà in un buon dentista.
Nonno Paolo va a volte d’estate a Porto San Giorgio ospite per qualche giorno di un figlio; si veste in quelle occasioni di bianco, non si toglie mai la giacca, porta comunque la paglietta.
E’ sempre Guido che lo rattrista, Paolo lo sente sempre infantilmente ottimista sull’“affare” che sta per concludere e che invariabilmente si risolve in un disastro; ma Guido stesso, non sarà preso da un giro dal quale non riesce ad uscire? Probabilmente è solo un visionario, trova purtroppo sempre qualcuno che gli dà credito e che poi diviene la sua vittima. Si susseguono fra i fratelli i consulti per renderlo quantomeno innocuo; di interdirlo non se ne parla, nessuno vuole prenderselo a carico.
Firma con disinvoltura dichiarazioni solenni di astenersi in futuro da qualsiasi tipo di investimento, ma deve pur vivere con la sua famiglia – che è alla disperazione, Giulietta sempre sull’orlo della separazione - non gli si può impedire di agire. Sempre più frequentemente giungono notizie di gente
che è spazientita dalle attese eccessive di rimborsi che, ormai à chiaro, non verranno mai.
Guido sembra aver trovato una occupazione col commercio di medicinali, apre un ufficio con un socio in Lungotevere Mellini; i fratelli sono allarmati, ma per qualche tempo la cosa va avanti.
Paolo è il più scettico di tutti.
Dopo la guerra d’Etiopia del ’35 ed il successivo “Impero” del ’36 si moltiplicano per Roma le adunate in camicia nera, le ricorrenze di fasti più o meno sognati, di lupe capitoline ingabbiate vicino ad una povera aquila ridotta dietro le sbarre; sono gli anni delle sfilate, dei cortei dal Quirinale a piazza Venezia, delle adunate obbligatorie “oceaniche” di tutti gli uomini validi sopra i vent’anni ad ascoltare la parola del Duce. Anche a Carlo tocca andare, e lo fa brontolando, Giorgio sembra prendere parte alla ubriacatura generale, Guido è l’unico che la fa franca, non ha una vita ufficiale.
Paolo vigila sempre su Guido, è l’unico figlio che gli procura fastidi e preoccupazioni; apprendo perfino che una volta, sentendo che aveva preso a rincasare sempre più tardi la sera, si è recato sotto casa sua, in viale Glorioso 13, attendendo fino a che non lo ha visto arrivare: a cosa giunge lo scrupolo di un padre!
Di discorso in discorso si giunge alla dichiarazione di guerra, una doccia fredda per i nostri genitori, una avventura esilarante per i ragazzi. Tra Asse con la Germania, successivo Patto d’Acciaio con la stessa (1939), Patto Tripartito esteso anche al Giappone (1940), ormai anche l’Italia entra in guerra contro il resto del mondo. Paolo ha settantasette anni, non può più vivere solo, le restrizioni imposte dalla guerra lo isolerebbero troppo da tutti i figli.
Consulto in Famiglia, decisione di volerlo avere tutti, turni, si comincia con Mesa; ben presto poi va da Giorgio, dove trova una buona stanza tutta per sé, gli arredi anche sono i suoi, sarà la sua base; non trascura tuttavia gli altri figli, chi lo ospita in villeggiatura (i tempi stanno diventando duri, non c’è molto spazio per le vacanze). Durante la terribile guerra, Guido non senza una buona dose di leggerezza, ma con spontaneità insospettata ospita in casa alcuni perseguitati ebrei: con i tedeschi alla loro perenne ricerca, esposti al rischio di delazione, conoscendo oggi bene il programma di genocidio che avevano ordito, aveva messo in situazione di estremo pericolo la famiglia, probabilmente senza rendersene conto; pur avendo messo in atto un’azione umanitaria addirittura eroica, in quei frangenti; traccia di questo atto è stata persino rinvenuta da Minette non molto tempo fa, per la testimonianza di uno dei beneficiati.
Paolo si accorge del rischio, decide che Guido non deve esporre anche le sue tre familiari ad un rischio che, si capisce, è pari a quello dei poveri perseguitati ebrei: a malincuore si reca un mattino presto in casa di Guido e gli impone senza mezzi termini di liberare la casa entro la sera. Fortunatamente era presente in quel frangente un solo ragazzo, non fu difficile ricoverarlo altrove. E la cosa finì lì.

Le persone grandi soffrono la guerra in modo ben più pesante che noi ragazzi: nonno Paolo, che nella sua vita ha sofferto tante amarezze, la sente come un incubo, un torto imposto dai Governi alle rispettive popolazioni tratte vergognosamente in inganno con false promesse, in un doloroso raggiro che uccide. I nostri genitori pagano il costo diretto di una vita tormentata, ai limiti della sicurezza,
della fame, della perdita delle più elementari libertà personali.
A noi ragazzi bastava la sofferenza delle notturne sirene d’allarme, del rombo delle “fortezze volanti”, del tonfo dei bombardamenti a San Lorenzo, nulla sapevamo delle torture praticate da tedeschi e fascisti a via Tasso: qualche eco ci giunse di via Rasella e della tremenda vendetta tedesca alle fosse Ardeatine. Cominciavamo a capire anche noi che la guerra era qualcosa di ben diverso da un duello cavalleresco, da un poema epico come quello di Ilio che venivamo leggendo a scuola. I genitori tutto ciò lo sapevano e lo sentivano profondamente, presi oltretutto dalla necessità di procurare quotidianamente di che sfamare la famiglia, di compiere il servizio militare obbligatorio, sempre esposto al rischio di essere spedito al fronte, forse persino in Russia. E con l’aggravante di quelle nascite occorse inopinatamente proprio in quei frangenti drammatici.
Paolo tutto vede, tutto capisce, si sente impotente di fronte a tanto disastro, le forze lo vanno abbandonando ogni giorno di più. Un breve consiglio in famiglia, ed è Mario, unico figlio medico, che può dare un sollievo ed una speranza alla cardiopatia dell’anziano padre. Mario nel frattempo aveva presentato ai fratelli una sua amica che si accingeva a sposare, Rina Mogiatti, cui non fu facile per nessuno innamorarsi: fu tuttavia preziosa, servizievole, anche se non proprio muta; recitò bene la sua parte, sollevò buona parte del peso e delle responsabilità dalle gracili spalle di Mario. Ma il conforto maggiore per Paolo, avanti di chiudere gli occhi, fu sapere che i tedeschi erano ormai alla ritirata, dopo qualche scaramuccia senza conto avevano lasciato Roma, erano adesso incalzati dalle avanguardie alleate. Anche gli ultimi fanatici fascisti avevano sgombrato, Roma, la sua Roma, era salva!
Morì in un triste mattino di primo luglio 1944, stanco ma sereno, contento di aver superato con tutta la famiglia anche l’ultimo conflitto, di essere finalmente libero di rivolgersi indietro, ritrovare la madre Marietta, la moglie Rosina, il fratello Alessandro, la sorellina Cecilia; e tutti gli altri.


Post scriptum
Notoriamente la memoria dei ragazzini registra, relativamente al nostro prossimo, solo episodi casuali, spesso anche insignificanti: è più tardi che si risveglierà l’interesse per le persone, quando alcune fra esse saranno già passate, lasciandoci solo i ricordi di terzi, qualche scritto da decifrare, piccoli oggetti minuti.
Per anni avevo conservato un portamonete di nonno Paolo tutto consunto, scucito, in pelle di coccodrillo, con chiusura supposta in oro o dorata, inservibile: ma col tempo anche questo piccolo oggetto è passato, come tutto il resto: come i due brillantini non mai montati, piccoli ma molto luminosi, passati questi nella tasca del ladro che ci ha svaligiato la casa. Resta qualche lettera, qualche corrispondenza di tipo familiare a lui diretta, qualche finestra socchiusa da cui intravedere qualcosa della sua vita passata: è questa sua vita, la sua presenza, che ho voluto ritrovare, far riemergere da un passato ormai già vecchio, perché Lui non abbia ancora ad abbandonarci, continui a stare con noi.


Claudio, Dicembre 2006

Il ricordo di nonno Paolo è vivido e ben presente alla mia memoria, legato all’infanzia, alla casa del Lungotevere, alle colazioni, soprattutto domenicali, cui arrivava per lo più con il nostro amatissimo zio Mario. A tavola noi bambini parlavamo poco ma ascoltavamo….e i giudizi secchi, quasi paradossali, pronunciati da lui ci colpivano molto più che le frasi più sfumate, che tenevano conto della nostra mentalità infantile, dei genitori; ricordo per esempio una volta che a tavola il discorso su Garibaldi, anzi su Anita (forse eravamo andati a passeggiare sul Gianicolo spingendoci fino al monumento di lei), nonno Paolo severo e lapidario la definì “l’adultera” e basta.
Scherzava anche, ogni tanto, per esempio parlando del re Vittorio Emanuele, lo chiamava “sciaboletta” evidentemente non sopportava la sua statura fisica, ma non solo quella.
Con noi era affettuoso, un po’ distante. Fumava il sigaro toscano e per anni quell’odore me lo ha ricordato: del resto il nostro primo tentativo di fumare fu proprio tentando di dare qualche boccata al suo sigaro non finito e ancora acceso, lasciato in un posacenere subito prima di andare a tavola….
Con esiti così disastrosi – almeno per me – che ancora li ricordo.
E poi c'è stata la bella scrivania sulla quale ho studiato lunghi pomeriggi dal ginnasio al liceo: ampia, squadrata con due file laterali di piccoli cassetti dove avevo sistemato carta da lettere, diari, agende, foto e quant'altro; mi ha segutito quando, sposata, ho avuto in Lussemburgo una casa grande dove faceva bella figura in salotto, restaurata e lustra, un bel pezzo in stile "Impero"; l'ho tenuta ancora rientrata in Italia, fino al matrimonio di Paolo fratello con Carla: è stato il mio regalo a lui, nuovo Paolo Macioti, e spero un giorno sarà di Paola, sua figlia.

Una delle immagini di nonno Paolo più chiare è la sua gioia per la nascita di Minette e la tenerezza con cui la teneva in braccio in occasione di una fotografia che conservo, dell’aprile ’43.
Morì nell’estate ’44 poco dopo la liberazione di Roma; il primo lutto di cui ho memoria, dolorosissimo, specie per l’immagine di mio padre affranto, che mi abbraccia inondato di lacrime.
Non l’avevo mai visto piangere.

Flaviana, marzo 2007.

[i] Ludovico Fausti, di famiglia spoletina, era nato nel 1805. Colto, educato, ben ambientato e conosciuto, ricoprì in Roma per vari anni l’incarico di spedizioniere apostolico, ufficiale della Dataria e della Cancelleria; fu gentiluomo ed intimo del Cardinale Giacomo Antonelli, di Senigallia, Segretario di Stato e quindi massima potenza presso la corte pontificia.
Cadde vittima di una macchinazione ordita dall’arcivescovo Xavier de Mérode, il cui disegno era evidentemente quello di scalzare il potente Cardinale ed assurgere al suo posto.
Con l’aiuto di alcuni suoi fidati , tra cui tal Eucherio Collemassi, istruttore di processi politici, promettendo l’impunità ad una donna di malaffare, tale Costanza Vaccari Diotallevi, a patto che firmasse una serie assurda di accuse, sospetti, illazioni costruite al tavolino, fece istruire un processo da un tribunale speciale, chiamandovi a giudici Mons. Sagretti, Presidente, col concorso dei Monsignori de Ruggiero, Theodoli, Mattei, Capri Galanti e Macioti Toruzzi come giudici aggiunti. Pubblica accusa, il Collemassi.
Ludovico Fausti venne arrestato il 22 febbraio 1863, all’uscita della Chiesa di San Carlo al Corso, dove si era recato in compagnia della moglie, tanto era lontano dal supporre che vi fosse un disegno che riguardava la sua persona. Abitava lì presso, nella casa di sua proprietà, in via di Fontanella di Borghese 46.
Il processo fu breve, l’avvocato difensore, Olimpiade Dionisi fu ascoltato con interesse, sfilarono i testimoni, furono prodotte lettere scritte con codici segreti, il collegio giudicante si risolse all’unanimità per la colpevolezza dell’imputato; gli furono assegnati venti anni di carcere nel più duro dei reclusori, gli scantinati del Sant’Uffizio.
L’avvocato Dionisi si appellò invano, non ci fu revisione, la sentenza non venne più esaminata.
Dionisi scrisse un accorato appello all’ opinione pubblica, un Comitato Nazionale Romano dette alle stampe tutte le fatiche del Dionisi (giugno 1863).
Gli incartamenti del processo vennero trafugati, ricomparvero a Firenze (Capitale), con non poco nocumento per il povero Fausti. Tutto venne pubblicato, comprese le famose lettere “compromettenti” che sarebbero servite per incriminare il poveretto: il clamore e lo scandalo furono tali che più volte alcuni emissari del Papa andarono nella cella del Fausti per assicurarlo che, se solo avesse chiesto la grazia, questa non gli sarebbe stata negata. Egli però si rifiutò sempre categoricamente, persino l’unica volta che la stessa proposta gli fu porta direttamente dal suo ex amico e protettore Antonelli.
Di fronte alla sua irremovibilità le porte della prigione gli furono aperte la notte dell’ultimo dell’anno 1867, senza che gli venisse poi mai fornita una qualsiasi parola di spiegazione, una sentenza, od una scusa: fu praticamente cacciato dalla carcere, perché inquilino divenuto troppo scomodo. Si seppe più tardi che Pio IX° ne aveva semplicemente ordinato l’espulsione. Aveva scontato intanto cinque anni di terribile, ingiusta prigione.

[ii] Nel 1903 un grave fatto di cronaca nera interessò l’opinione pubblica non solo romana, per la notorietà dei personaggi coinvolti: il conte A. Bonmartini fu ucciso da Tullio Murri, ventottenne, su istigazione, come si disse, della propria sorella Linda, moglie essa stessa del Bonmartini.
Tutti conoscevano Augusto Murri, padre dei due, clinico di valore, apprezzato anche al di fuori dei nostri confini: il poveretto ne ebbe la carriera stroncata.
Il processo fu seguito morbosamente da molta gente; l’aspetto più cupo della vicenda fu il presunto rapporto torbido fra i due fratelli: molti furono gli innocentisti relativamente alla Linda Murri, fra questi anche Giovanni Pascoli.
La sentenza condannò Tullio a trenta anni, Linda, riconosciuta istigatrice del delitto, a dieci anni di soggiorno obbligato, una pena relativamente mite.

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07 febbraio 2007

Alexandre ha 4 mesi!




mamma mia quanto tempo che non scrivo! è che sono stata abbastanza occupata...
Alexandre è cresciuto, ormai sorride, ride, riconosce un po' di gente, cerca di sedersi, vuole sempre uscire!
Cerchiamo di portarlo a spasso il più possibile, ha passato le vacanze a Punta Puyai andando in bicicletta (ossia trainato da suo papà in un carretto fatto apposta, lui dentro un cestino), attraversando il fiume a Las Salinas de Pullally (sempre nel suo cestino, messo dentro un canottino), accompagnandoci alla spiaggia o a giocare a tennis, al ristorante... insomma un po' dappertutto! Manca solo il cinema, per ora si limita a vedere la televisione nel lettone con mamma e papà!
Quando è contento si nota subito dai gridi acuti che lancia, in particolare quando lo si prende in braccio e si varca la porta di casa!
Gli piace tutto quello che si muove, in particolare gli alberi e le piante.
Dorme tutta la notte, per fortuna, il che è molto ben visto dai suoi genitori